RAFFAELLA MUSICO': sono nata a Roma, nel giugno del 1970; mi sono trasferita in provincia di Milano da tre anni, per amore, e lavoro con il mio compagno nella sua Agenzia di assicurazioni, come responsabile Marketing e Comunicazioni. Ho pubblicato due racconti sulla rivista "Inchiostro" e uno sulla rivista "La Scrittura" di Antonio Stango editore, con il quale ho anche pubblicato una raccolta di racconti, nel 1996. Ho finito adesso il mio primo romanzo.



Scrivo da sempre, perchè è dentro di me, perchè sono le parole scritte, le storie che tengono avvinta la mia anima; e con un atto di risoluta immodestia credo di poterle usare per attirare le anime del mondo. Il suono immaginato di una parola impressa su un foglio è magico come una musica, evocativo come un ritornello ancestrale: amo scrivere perchè niente può essere così. Bello come la letteratura.




BALLANDO, BALLANDO.... 07/03/98


Quella fiammella di luce poco sopra la mia testa mi teneva catturata, quella sera, e non riuscivo a distogliere gli occhi, neanche per Sara, che mi stava seduta di fronte. Sara.
Avevo sempre pensato che avesse dei poteri straordinari, straripasse di dedizione alla comprensione dell'animo umano, coltivasse una pazienza fuori dal comune. Ma non era cos'. In realtà lei era solo incapace di decidere alcunchè: dedicava la sua vita a capire quello che gli altri stabilivano per lei, ma la sua bocca, quella bocca morbida come il burro, mi faceva svenire.
La guardai negli occhi e mi fece tutt'a un tratto una gran pena: si aggirava come una tigre in un cortile, con quella sua assurda aira perbene, le sue perle, i capelli un pò spettinati e le mani affusolate e diafane. Ero con lei da tanto tempo che ormai non la osservavo, non stavo attenta ai suoi dettagli - quel neo sotto l'orecchio, la piccola cicatrice che brillava sul polso destro, il suo modo di ridere arricciando il naso - registravo solo i suoi silenzi, quelli veri, quelli in cui non si ha niente da dire, durante i quali tutto ciò che ti passa per la mente è "Speriamo che finisca presto", ma non perchè ci si voglia bene, è che veramente, quando guardi l'orizzonte e l'unica cosa che noti insieme è quanto possa essere rosso il sole, è difficile sostenere l'implacabile percorso dei minuti senza sentirsi soffocare. All'improvviso mi sorrise, come faceva sempre a casa sua, dopo avermi aperto la porta d'ingresso, appoggiata alla maniglia, con ai piedi le pantofole di stoffa rosa morbide da non fiatare; mi invitava per il tè, che ci veniva servito nel piccolo soggiorno dalla mamma minuta e nera, meridionale con una sana adorazione per Normanni biondi e fulgidi. In quel soggiorno mi aveva raccontato la prima volta che aveva fatto l'amore e tutte, pian piano, le sue belle cose profonde e segrete, abbagliata lei stessa per prima dalla luce sei suoi tesori.Poi metteva su una musica morbida, che adorava, sempre quella come in un rituale - non le riusciva proprio di distaccarsi da quell'unica armonia di suoni. Mi prendeva per le mani, mi faceva alzare dal divano e mi abbracciava tenendomi per la vita, leggera, quasi impercettibile; poi chiudeva gli occhi e piegava la testa sulla mia spalla e giravamo lente, col sapore amaro del tè ancora sulle labbra, finché il disco finiva e la puntina grattava incessante e a quel punto, ogni volta, lei alzava lo sguardo, come appena sorta da un sogno soave e avvicinava le labbra alle mie e io non resistevo più, e la stringevo con tutte le forze e la baciavo come per l'ultima volta e le mettevo le mani fra i capelli e non potevo più staccarmi da quella bocca spalancata ad aspettare il cibo, per cui il cibo ero io, il suo fuoco segreto, che arroventava le sue notti e riempiva il suo diario. Me ne andavo via subito dopo, ancora arrossata e colma di desiderio; sul tram, quando ad ogni curva le lampadine si spegnevano per qualche secondo, ne approfittavo per riprendermi dallo stordimento, ma al tornare della luce c'era sempre una signora pronta a cogliere il mio disagio e io, che non ce la facevo a sostenerne lo sguardo, mi coprivo la faccia con le mani e le lacrime scendevano sicure a scaldami le guance.
Sara era rimasta lì, seduta di fronte a me che mi guardava e mi chiesi perchè non l'avessi mai lasciata andare. Stava muta in attesa di una risposta, di un consiglio, di una parola, ma più i suoi occhi m'imploravano, più mi tornava alla mente la musica dei nostri pomeriggi e una leggera nausea saliva ad afferrarmi la gola.
Rimasi zitta ad osservarle le dita inanellate ed esangui e d'incanto la superficie del tavolo sulla quale erano posate si trasformò nel mio corpo, supino sotto di lei: risentii i brividi, vidi la mia pelle increspata dal lievissimo contatto e i suoi dentini bianchi aperti in un sorriso beffardo.
Intanto erano entrate nel locale, in cui boccheggiavamo da più di un'ora, alcune ballerine di flamenco, per esibirsi in uno spettacolo: due alte e imponenti, con le spalle quasi scolpite e la pelle appena dorata; le altre tre più minute, e i loro occhi guizzavano intorno ad indovinare l'umore della sala. Avevano tutte un costume nero, allargato a corolla per permettere i movimenti del ballo e si disposero in un attimo secondo una coreografia ben studiata. Cominciò la musica ed io, come ipnotizzata, mi alzai per avvicinarmi e guardarle meglio. Sara, naturalmente, mi seguì, non trascurando di raccattare i nostri cappotti e le borse.
Mi appoggiai a una colonna e lei mi fu subito dietro, appiccicata, e per un moto di ribellione a quell'avvicinamento, la spinsi verso un tavolo vuoto lì accanto; perse l'equilibrio e ricadde pesantemente sulla sedia. Invece di arrabbiarsi, mi sorrise debolmente, come un cane fedele nonostante tutto, e quelle sue labbra dischiuse mi suscitarono un'ira tale che avrei potuto ucciderla; mi vidi prenderla per i capelli e fracassarle la testa sullo spigolo del tavolo, in un mare di sangue. Ma prima che potessi muovermi, mi sentii afferrare un braccio e trascinare via. Incontrai, all'altezza dei miei, due occhi neri di una di quelle statue, occhi che sembravano insetti, con ciglia lunghe e ricurve come zampe, appoggiate sulla carne ben truccata del viso. Non sapevo ballare, ma mi travolse e mi sostenne con le sue mani esperte, forti ed implacabili.
Sara sostava abbrancata al mio cappotto con gli occhi estasiati fissi su di noi che ballavamo e non avrei saputo dire che cosa mi tenesse a lei. Mai lo avevo saputo.
Ora certo quella insignificante novità - quel girare con le mani attorno al corpo di un'altra, in uno spazio sconosciuto di volti silenziosi - trafiggeva l'ovvio che eravamo noi, ma senza darmi alternative, senza concedermi una scelta: la musica ci aveva prese, un'altra armonia stabilita, un'altra danza ineluttabile. Certi universi, a volte, si scoprono improvvisi, e si spalancano d'un colpo completamente, pronti per essere presi o per sempre abbandonati.
Il profumo di Sara si perdeva nell'odore acre del sudore dell'altra, la sua lingua capricciosa e languida, nei recessi imprevedibili che quella pareva offrirmi. Io stessa ondeggiavo, istupidita da mille riflessi nel mio buio profondo.
Venne una luce forte a risvegliarmi, il suono degli applausi, gli inchini prestabiliti delle ballerine.
Tornai al tavolo, presi Sara per mano e uscimmo.



LUNA DONNA